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What’s going in Italy? Riflessioni sul Festival Nolebol

Sarebbe retorico sprecare troppo tempo a ricordare che l’Italia vive un momento di crisi culturale ed economica anche se, personalmente, non ho memoria di aver vissuto un periodo florido e vivace. Gli spazi culturali e i live club hanno sempre pianto miseria e la musica originale e indipendente è sempre stata outsider rispetto alle cover/tribute band, al pop e alla disco.
È altrettanto documentato che la prolungata repressione e la mancanza di spazi (non solo fisici) causano frustrazione negli spiriti più irrequieti. Questo risentimento spesso rappresenta in sé  la molla dell’attività creativa e si esprime attraverso diversi canali comunicativi tra i quali quelli artistici e in questo caso musicali. Trovo, dunque, estremamente coerente collocare un’iniziativa come quella di un festival di musica underground nel suo contesto sociale: l’Italia rincoglionita dalla superficialità, dalla comunicazione pubblicitaria frivola, dalla mania vacua del “cool” e costantemente in preda a clientelismi,  speculazioni, disoccupazione, povertà crescente e la bassissima dignità che dimostriamo individualmente e come popolo.
È proprio dai rigurgiti, dalle esclusioni e dai fallimenti del sistema sociale e culturale che nascono le espressioni artistiche autonome e auto-organizzate chiamate “controculture”. Non a caso i principali promotori dell’iniziativa non potevano che essere i Gronge, lo storico nucleo di tecnocabaret:  praticamente un collettivo aperto che usa l’elettronica, il rock e la performance per veicolare messaggi di forte critica sociale proprio come succedeva per l’hip hop prima che diventasse un prodotto di mercato per i teen agers.
Non ci soffermeremo a parlare del significato delle parole: underground, sottocultura, controcultura ecc.. (la letteratura in materia è vastissima) e non ingaggeremo la classica gara: “chi è il più indipendente?” paragonabile ad altre gare famose come “chi ha la chitarra più figa?” o alla classica “chi ce l’ha più lungo?”. Credo che questo approccio competitivo rappresenti un marciume da sconfiggere attraverso contrapposte pratiche quotidiane nelle nostre relazioni lavorative e interpersonali.
Di sicuro dobbiamo contestualizzare il nostro festival e dobbiamo chiederci cosa avevano in comune i 40 gruppi provenienti da tutta Italia e quali sono le caratteristiche che differenziano il Nolebol rispetto ad altri festival di marchio “indipendente”?
Innanzitutto il senso di identificazione/appartenenza a una “tribù” in cui prevale il fattore umano, il rispetto e l’amicizia reciproca indipendentemente dal genere musicale di ciascuno. Non si tratta di un raduno jazz , rock o noise… sono gli stessi gruppi a rifiutare l’etichettatura in un genere musicale chiuso e predeterminato. Preferiscono parlare di un fumoso denominatore comune spesso chiamato “attitudine” sommariamente identificabile nella verità della proposta artistica, nella prossimità tra vita e musica e ovviamente nella cazzutaggine delle modalità espressive, attingendo, più o meno consapevolmente, dal situazionismo, dalle avanguardie e dall’immediatezza del punk. Per quanto il significato possa esser mistificato e soggetto a interpretazioni, l’intento è quello antico di fare comunità agendo contro la lobotomia del sistema mediatico contrapponendosi alle logiche del music business.
In questa comunità  lo “stare con” vince sull’ “emergere”, sul “contattare”, sull’urgenza di vendere indiscriminatamente il proprio prodotto musicale. Non si tratta di una palestra per fare gavetta nel tentativo di sfondare ma semplicemente di dare sfogo al prurito che si ha in culo quando si vogliono dire delle cose.
La parola “tribù” ci riconduce alle forme artistiche e sociali primitive, ai riti collettivi legati all’appartenenza territoriale. In realtà il senso di autenticità creativa ha un forte legame con il contesto di provenienza geografica e culturale degli artisti  (città, periferia, provincia, esperienze, background, ecc..…). Questo diviene un fattore di coagulo per il gruppo stesso e paradossalmente anche un fattore empatico per chi viene da altre zone ma vive o comprende le stesse frustrazioni.
L’evento non ha headliners ma si propone come canale di visibilità per il circuito tout court conservandone l’informalità e senza il controllo di un organizer o di una produzione. L’evento diviene motore di aggregazione e luogo privilegiato per il confronto tra le band che non si trovano a gareggiare come in un contest leccando il culo ai giornalisti in giuria ma hanno abbandonato ogni spirito competitivo a favore della condivisione, dell’autoironia, dell’improvvisazione… (per esempio io stesso ho avuto modo di improvvisare sul palco  insieme a Maybe I’m, Superfreak e Alexander de large in maniera del tutto estemporanea).
Resta da capire come fa tutto questo a  differenziarsi  dal simpatico e variegato mondo chiamato “musica indipendente”? Il calderone in cui rientra tutto l’indotto dell’industria culturale “alternativa” italiana che si alimenta delle illusioni antagoniste degli universitari che frequentano i locali e i circoli arci e disinganna tante giovani band che sbraitano per “emergere“ dall’anonimato e lottano tra poveri per conquistare la loro fettina di fugace successo. Ciò che viene contestato è proprio l’ontologia dell’emergere che rende schiavi i giovani artisti di un sistema fatto di contest fasulli, di voti online, foto in tiro, bisogno assoluto di visibilità e di “contatti giusti”, di collaborazioni senz’anima e di musica mediocre ed emulata.
Tutto questo non significa che non si debba produrre e diffondere musica ma che bisogna ripartire da noi stessi, da ciò che si vive e ciò che si prova, conoscere i propri limiti e soprattutto riconoscersi  in ciò che si presenta. Mostrarsi per quello che si è e non per ciò che si vuole apparire, errori e fallimenti inclusi, portare la propria vita sul palco con le sue particolarità e le sue bruttezze e non “pubblicare solo le foto più fighe”.
Le band in questione si autoproducono con una logica che qualcuno chiama DoItYourself. Ogni fase del processo musicale è libera da logiche commerciali e da ideologie sia essa affrontata autonomamente o condivisa attraverso una collaborazione. Dalla composizione, alla registrazione, all’editing del lavoro fino alla sua distribuzione e al booking … tutto viene affrontato dalla band stessa con l’aiuto di un circuito di amicizie, etichette e booking autogestiti. 
Capite che tutto questo non può essere una fonte di guadagno anzi rappresenta una passione per cui si sacrificano tempo,  ferie per andare in tour, compagne, eventuali figli e ovviamente denaro. Sono pochi quelli che decidono di dedicarsi a tempo pieno alla militanza artistica e, per usare un eufemismo, non navigano nell’oro. Ma essere liberi dalla necessità economica porta a scelte più pure. Un mio caro amico per esempio, ha deciso di non essere mai pagato per suonare proprio perché vuole essere lui a decidere dove e come farlo. In uno dei suoi rari concerti il suo cachet è stata una cassetta di limoni biologici. Ricordo di averlo reso l’uomo più felice del mondo. 
Non è un segreto se dico che solitamente ai concerti dei gruppi che hanno partecipato al Nolebol non ci va molta gente seppure le band si sbattano per bookare tour italiani, europei e internazionali. In Italia c’è pochissimo interesse verso la novità musicale, verso ciò che non si conosce, preferiamo la sicurezza della musica che è già stata pompata in radio e una bella selezione di successi. Inoltre abbiamo una grande capacità di sottovalutarci visto che nel bel paese circolano band musicalmente molto superiori rispetto alla media di quello che trovo quando vado all’estero.
Parallelamente ritengo fondamentale che la musica nuova e verace venga diffusa anche in contesti assolutamente avulsi dai centri sociali o dai circoli dove siamo abituati a suonare e raggiungere un pubblico diversificato proprio per il sua carica sovversiva. La musica è solo uno dei canali comunicativi insieme a fanzine, vinili, libelli, produzioni, loghi, blog, scelta delle location, collaborazioni, tipologia di rapporti con le istituzioni, appropriazione/utilizzo degli spazi, shows, arti visive, scenografie… tutto deve divenire parte di un’ unica espressione artistica…una combinazione di elementi etici ed estetici coerenti e diretti.
Questo è quello che penso che sia il Nolebol o almeno quello che vorrei che fosse per tutti quelli che partecipano. Complimenti dunque a tutta la macchina organizzativa perché ci permette di fotografare ciò che accade in Italia. A questo punto non resta che rafforzare l’idea e cercare di darle continuità ed efficacia e continuo prurito.
 
Alberto Piccinni